Il Bioparco della Val Cavallina

Scrivere di storia è un fatto necessariamente plurale, anche quando lo si fa intorno e soprattutto su una comunità, un paese, una valle, perché la storia è intreccio, è trasformazione, è dialogo di voci, è ricerca di correlazioni e significati, tracce e documenti.

La storia è storie di persone, che cambiano il mondo in cui vivono e di generazione in generazione si fanno comunità e paese.

E quindi, scriviamo di storie, anche perché mai come per aree così circoscritte e al contempo così aperte come la Val Cavallina, lo scorrere del tempo si declina nella coralità, nella diversità che si riduce ad unità solo dopo un lungo e faticoso percorso di assimilazione, nella memoria che si fa identità locale.

Dentro questo flusso di storie e di memorie, si colloca uno spazio, un luogo, uno stare, che oggi ha assunto l’aspetto di un piccolo borgo cresciuto, come tanti altri, intorno alla sua chiesa, ai suoi santi, ai suoi campi ed ai suoi boschi. Quasi appartato rispetto al fondo valle, dal quale quasi nemmeno si rintraccia, nella sua apparente marginalità, c’è Trate, frazione di Gaverina Terme, borgo antico e campanile minore tra i tanti di valle, senza altro lustro che la fatica con cui darsi da vivere.

La vita nel borgo si è evoluta in sintonia con quanto accaduto al resto della società italiana, dove le comunità locali hanno reagito all’ondata di cambiamento, cercando di mantenere l’equilibrio ed il perimetro sociale e culturale, prima ancora che ambientale e urbanistico. In questo luogo, la cultura si innesta sulla natura e trasforma il bisogno in tradizione, integrando tutto quello che serve al quotidiano e che non appartiene ancora al territorio fino a renderlo locale, conoscibile, trasmissibile come sapere e identità.

Non c’è tradizione senza apertura e innovazione, ciò che non si rinnova muore e secca, perché si può conservare la memoria, il ricordo, ma non il valore, che può essere solo attuale, di chi lo vive, oppure, semplicemente, non è.

Per questo, non esistono più storie o forme culturali pure, incontaminate, ma solo processi in continuo divenire, verso la scomparsa o verso un nuovo adattamento della diversità, dove però la conoscenza può anche farsi riconoscimento, nel senso di recupero di radici e di senso, ma anche di opportunità di sviluppo.

Il tempo del sacro

Le tradizioni locali rappresentano un settore difficile da circoscrivere, perché “contaminate” dall’evolversi dei costumi e della cultura, ed infatti alcune sono di fatto estinte, legate com’erano ad uno stile di vita rurale oggi ormai scomparso, altre si sono evolute in eventi e manifestazioni profondamente diverse dall’originale.

Restano, tuttavia, ancora vive e presenti, almeno nei caratteri principali, le ricorrenze religiose e alcune sagre legate alle stagioni dell’anno, mentre altre rinnovano con idee recentissime occasioni di festa già consolidate, come le ormai diffuse rievocazioni storiche in costume, occasioni per reinventarsi un passato a volte in modo confuso e poco consapevole dei valori autentici.

Nel sistema paese, intorno alla chiesa le case, i campi e le stalle non sono separati se non per quello che basta per affermare una dignità che non è distanza, ma regola di rispetto, a segnare una fortissima devozione che ne ha assicurato una continuità sconosciuta ad altre istituzioni pubbliche.

La sfera del sacro mantiene valore nelle coscienze sempre meno collettive e sempre più individuali che oggi formano la comunità, nonostante siano profondamente mutati i  contesti ed addirittura persino i significati di talune ricorrenze.

Era, e per certi versi è ancora, quello dedicato al sacro, un tempo altro, che segna in modo netto lo stacco tra la vita quotidiana ed il rendere grazie per la buona sorte, implorare aiuto per quella grama, cercare sostegno per la durezza della quotidianità, intercessione per le inevitabili tragedie, vissute con senso di ineluttabile rassegnazione.

Nella religiosità popolare che ancora oggi si coglie in tanti piccoli riti, intrisa di superstizione e di credulità, ma anche di profonda e umile fede, affiora anche un’etica rigorosa, che si rafforzava in una condivisione pressoché totale, anche se non impediva l’ovvia diffusione di piccoli e grandi peccati, che tuttavia erano identificate da tutti in modo chiaro e definito.

La comunità si dava un codice, un elenco di precetti che definiva e regolava il comportamento di ciascuno, valido e condiviso da tutti, che non eliminava il peccato, ma in cui era chiaro qual’era il bene e quale il male.

La festa, quella domenicale, ma soprattutto quelle patronali o i grandi eventi liturgici, era il momento forte, quello in cui il paese, la gente, si riaggregava e recuperava il proprio essere comunità, in un dimensione che proprio perché legata al soprannaturale, all’eterno, rafforzava il senso dell’identità, che andava oltre la finitezza umana, assicurata dal patto con le forze dello spirito.

Alla chiesa si affidava tutto il ciclo della vita umana, la nascita e la morte, i riti di passaggio dall’infanzia alla giovinezza e da quest’ultima all’età adulta, il matrimonio e la vita della famiglia, ma anche il lavoro, i campi, le bestie.

E qui entriamo in un’altra delle dimensioni fondanti della vita della comunità e del borgo antico.

Il tempo del lavoro

Tra i tempi del vivere, con cui si scandiva il quotidiano, un ruolo fondamentale spetta al lavoro, invero nelle nostre valli quasi assurto a valore assoluto, che distingue e fonda la stessa identità sociale: chi non lavora, il fannullone, era ed è visto con sospetto, praticamente bandito dalla comunità.

Ma quella del borgo antico di Trate è una civiltà della terra, fondata su riti e rapporti con i cicli naturali, dove i luoghi sono il campo, la stalla, il fienile, a volte uniti alla casa e casa essi stessi, in condizioni di estrema sintesi tra luoghi di produzione e luoghi di vita, più comunione che struttura organizzativa, anzi addirittura inesistente, laddove dai campi alla casa il passo era davvero breve.

Economia prettamente manuale e a conduzione familiare, dove per tutti c’era un ruolo e dove la sapienza dell’anziano era tenuta in gran conto, perché insegnava e trasmetteva abilità che non avevano altra origine che l’esperienza.

Importante, quindi, non solo la prestanza ed il vigore fisico, ma anche quel patrimonio di saperi e abilità oggi sempre più in bilico, dalla battitura della falce alle tecniche di allevamento e di coltivazione, in epoche in cui un raccolto problematico o la perdita di un animale domestico significava letteralmente fame e miseria.

Anche il lavoro aveva la sua gerarchia, la sua disciplina, la sua organizzazione, dove

l’apprendistato avveniva per emulazione, in famiglia e in diretta tramite l’esperienza, dove alla dura fatica andava accompagnata una particolare abilità, che ove riconosciuta definiva e attribuiva un preciso status di prestigio sociale, oltre che professionale.

Il maggior vanto possibile era costituito dall’eccellere nella propria attività, qualunque essa fosse, anche se la specializzazione era tutto sommato rara, in quanto, comunque tutti sapevano fare un po’ di tutto, più di necessità che per reale vocazione.

Esistevano, comunque, ambiti specifici, soprattutto artigianali, che costituiscono il giacimento di saperi su cui si è sedimentata la tipicità dei luoghi e dei prodotti che da questi provengono.

Ma anche il lavoro poteva essere festa, ad esempio quando veniva il tempo del raccolto del mais, o della vendemmia, o della distillazione della grappa, o dell’uccisione del maiale, vero e proprio rito contadino che coinvolgeva tutta la famiglia e anche più di una, secondo le possibilità.

Ecco allora tutta la fatica e l’attesa dell’anno riversarsi sull’evento, che era pur sempre ambito di lavoro, ma con il seguito di soddisfazioni a lungo represse e rinviate.

Quel pane, quel vino, quella polenta, quei salumi, quel bisogno finalmente saziato, erano il coronamento di un percorso, nel quale far confluire il sapore e l’anima di un luogo, per poter dire, anche nel prodursi di che vivere, io sono di qui, e quel che mangio è diverso dal quello che si mangia fuori, altrove.

E accanto al lavoro, nel sistema del borgo antico anche un’altra importante dinamica d’interazione sociale contribuiva all’affermazione dell’identità comunitaria: il gioco.

Il tempo del gioco

Il tempo del gioco costruisce, attraverso le sfide, la formazione della persona e la posizione all’interno della gerarchia sociale, ma è anche antidoto alla fatica, alla bruta logica retributiva per cui la vita è solo un lungo interminabile turno di lavoro, interrotto solo dal richiamo del sacro, obbligatorio anch’esso, pena la dannazione.

Nella competizione si definiscono i ruoli, protagonisti e spettatori, vincitori e vinti, ma netta e seria e la divisione tra i giochi e il modo di giocare degli adulti e dei bambini o dei ragazzi, così come tra l’universo maschile e femminile, quasi sempre relegate, queste ultime, nella sfera domestica.

Tra i giochi vi sono molteplici differenze, giochi individuali, tra squadre e di gruppo, sfide tra paesi o contrade, dove il contendere diveniva a volte terribilmente serio.

Risulta difficile comprendere quanto fosse diversa la sfera del tempo libero in una società organizzata su coordinate diametralmente opposte a quelle attuali, ma proviamo ad immaginare una realtà in cui i giochi erano quasi sempre basati su poche, regole elementari, attrezzi ed oggetti di uso quotidiano e di facile reperibilità, oltre che di basso costo e sostituibili con poco sforzo, qualità questa fondamentale in una società non solo povera ma abituata al rispetto delle cose e alla sobrietà, perché delle cose conosceva il valore e la fatica che costava procurarsele.

Quindi, ecco il prevalere di giochi come le biglie fatte con l’argilla che si trovava presso le sorgenti, oppure il “quarantot”,che consisteva nell’abbattere a distanza birilli fatti con pezzi di legno con un altro pezzo di legno, oppure il “zöch del balù”, giocato nelle piazze e nelle vie con una pallina di caucciù fatta rimbalzare sul palmo della mano.

Ancora, la “lepa”, pezzo di legno a forma di fuso da far saltare con un bastone, ma anche giochi ben più complessi e il cui esercizio avveniva nel luogo pubblico e altro per eccellenza sia dal sacro che dalla famiglia e dal lavoro: l’osteria.

Un esempio per tutti, il gioco del “pirlì”, quasi unico nel contesto delle piccole comunità locali dell’arco prealpino, che consiste in un tavolo con un percorso di legno, in cui è ricostruito una sorta di castello con birilli di legno, ai quali è associato un sistema a punti.

Il giocatore deve lanciare una piccola trottola di legno mediante una frusta avvolta con cura e perizia, cercando di darle potenza e precisione per raggiungere i birilli più lontani e protetti, il castello, facendoli cadere e assicurandosi il maggior punteggio possibile.

Sfida nella sfida, di abilità e forza, intorno al “pirlì” c’era ben più di un passatempo, rito sociale che nel gesto finalmente gratuito e liberato dagli oneri e dai doveri permetteva all’individuo di ricomporsi e darsi una collocazione nella comunità attraverso l’eventuale vittoria, che per quanto effimera, costituiva rivincita e riaffermazione di sé in un contesto che offriva ben poche alternative di riscatto.

adminIl Bioparco della Val Cavallina